Il processo e l’attuazione dei diritti. Una riflessione di Alfredo Galasso sul Notiziario dell’Ordine degli Avvocati di Palermo.

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo ha deciso di riprendere la pubblicazione del Notiziario, con l’edizione ad aprile del numero Zero. Il Direttore ha chiesto al prof. Galasso un contributo da inserire nel prossimo numero, che è stato scritto con il titolo ‘Processo e tecniche di attuazione del diritto: una stagione incompiuta’ e di cui segue una sintesi.

“Nel lontano ottobre del 1987 in un Convegno palermitano dal titolo ‘Processo e tecniche di attuazione del diritto’ il dibattito si sviluppò sull’art. 24 della Costituzione quale fondamento del principio di effettività. Una stagione dunque che si apriva all’insegna di un’ispirazione ideale e nel solco di un’applicazione in sede processuale di quella norma e di quel principio costituzionale; ma che purtroppo, a distanza di oltre trent’anni, si è risolta, mi riferisco particolarmente al processo civile, in frammenti legislativi e giurisprudenziali di un sistema che rimane affatto inadeguato rispetto a quella aspettativa.

I problemi riguardano i tempi, i modi, i soggetti della vicenda giudiziaria.

Innanzi tutto, la lunghezza dei tempi del processo – penale e soprattutto civile – è  inaccettabile e sovente le procedure cd. alternative si risolvono in  un’ulteriore  sua causa, rallentando l’avvio o anche la conduzione della stessa fase processuale.

In termini organizzativi, va rilevato che il giudice civile, la persona del giudice, cambia frequentemente nel corso del medesimo grado di giudizio. È stata registrata dal Consiglio Nazionale Forense, ma chiunque esercita attività professionale ne è testimone, una quantità notevole di processi che si svolgono, dal momento in cui viene promossa l’azione al momento in cui viene depositata la sentenza,  con il succedersi di tre o quattro giudici che perciò non sono in condizioni di seguire dall’inizio al termine una istruttoria  spesso complessa e complicata. Non solo, ma talora alcuni atti o incombenti, fra i quali le consulenze che quasi sempre decidono il processo, sono delegati ad altri soggetti, sicché il giudice si ritrova a pronunziarsi  intorno a qualcosa che non ha conosciuto prima della camera di consiglio o che nel migliore dei casi conosce in maniera insufficiente e indiretta. Ma lascia perplessi anche la lettura delle molte sentenze della Corte di Cassazione di oltre cento pagine, dottrinalmente pregevoli, epperò distanti dalla vicenda concreta sottostante e a cui dovrebbe comunque farsi riferimento, pur nel giudizio di legittimità.

In generale, poi, l’abusata e pubblicizzata categoria della ‘supplenza’  dell’azione giudiziaria ha contribuito a non vedere e studiare le condizioni reali dell’esercizio della giurisdizione.

Quanto agli avvocati, essi potrebbero e dovrebbero avere una funzione di deflazione degli sbocchi processuali, avendo oggi a disposizione un percorso di conciliazione-mediazione più ampio rispetto al recente passato.

Invece, accade frequentemente,  specialmente in materia di famiglia, che il difensore piuttosto che rendersi conto e garante dell’interesse superiore del minore e non (soltanto) di quello del proprio assistito – padre o madre che sia – decide che il cliente ha sempre ragione e la conciliazione-mediazione diventa un passaggio puramente formale per certificare la mancanza di un accordo e consentire l’accesso al giudice.

A questa situazione, appena accennata, è possibile porre rimedio? C’è da augurarsi di sì, pur se in sede governativa e parlamentare l’interesse e la competenza non paiono adeguati a un serio ripensamento delle tecniche di tutela dei diritti. Sul piano politico, infatti, è agevole verificare che quando una vicenda clamorosa si affaccia alla cronaca giudiziaria si propone e si approva un provvedimento ritenuto appropriato alla circostanza contingente; si propone e si approva un provvedimento differente o addirittura di segno opposto quando un’altra diversa vicenda tocca la pubblica opinione.

Beninteso con l’uno e con l’altro dei provvedimenti adottati devono fare i conti avvocati e magistrati, provando faticosamente a renderli compatibili.

Non è il tempo delle grandi riforme, però è possibile pretendere che il legislatore prima di procedere per progressivi aggiustamenti della disciplina vigente ne discuta con gli addetti ai lavori e che i giudici prestino maggiore attenzione alle ragioni dei difensori, come accadeva una volta e sempre meno oggi”.